Che la crisi economica sia arrivata alle porte della Germania, oramai è un fatto assodato, sebbene fino a qualche tempo fa molti si affannassero a negare questa ipotesi. Allo stesso tempo, nonostante tempo fa la profezia della disintegrazione della moneta unica sembrasse incontrovertibile, nessuno è uscito dall’euro, ed uno dei PIIGS (Irlanda) è tornata ad esere “la tigre celtica” con una crescita prevista per il 2013 al 2,1%. Quello che sta succedendo ci mostra che la borghesia non ragiona attraverso schemi sempre prevedibili, ma – a volte navigando a vista, altre volte programmando le misure – tenta sempre di risolvere i propri problemi inventando strumenti nuovi, o riproponendo vecchie ricette; adattandosi, insomma, alle situazioni offerte dall’esistente. Cedere da parte nostra all’ansia della “previsione”, rischia di farci restare impigliati in schemi che ci nascondono la realtà – o quanto meno – ci rendono strabici quando non miopi rispetto a quello e a quelli che sono i soggetti a cui vogliamo guardare e i processi che descrivono la nostra possibilità di azione
L’idea secondo cui l’Unione europea sarebbe solamente un “cartello” fra nazioni tra cui alcune ci avrebbero guadagnato e altre ci avrebbero perso è – secondo noi – semplicemente sbagliata, per due motivi: 1. Perché si concentra ancora su un terreno – quello nazionale – che se può rivestire ancora qualche importanza, non può essere preso come il terreno di osservazione privilegiato per avere un’idea su cosa sia oggi l’Europa e la sua borghesia; 2. Perché rischia di occultare l’irriducibile conflitto tra le classi, tra capitale e lavoro, in uno scontro tra nazioni “forti” e nazioni “deboli”, tra “plutocrazie” e “grandi proletarie”, verrebbe da dire.
Monitorando – o almeno provando a dare un’occhiata – quello che sta succedendo in una nazione come la Germania, che ha indubbiamente molti parametri economici più “saldi” dei nostri, vediamo che questo conflitto, mai sopito e rafforzatosi con le riforme del lavoro all’inizio del nostro secolo, in questo momento – complice anche una crisi di vaste dimensioni – si è fatto ancora più violento di prima. Quello che ci interessa non è tanto ragionare su quanto il proletariato tedesco stia peggio o poco meglio di noi, né misurare il termometro della crisi tedesca. Sappiamo già abbastanza bene che le esportazioni sono diminuite, che la crescita è vicina allo zero e che molti tedeschi autorevoli – compresa la Cancelliera – hanno dato l’allarme sul fatto che la crisi sta “raggiungendo” la Germania, neanche si trattasse di un virus contagioso, come nelle migliori tradizioni medioevali.
In quel territorio che è il centro dell’economia europea, dove le condizioni dei lavoratori sembrano essere assai migliori rispetto a quelle dei poveri colleghi nei paesi mediterranei, scopriamo sgomenti che la guerra di classe è più viva che mai. Scopriamo non solo che la povertà è in aumento sia tra i lavoratori che tra i pensionati, ma anche che il tanto sbandierato “modello” tedesco di trattamento dei lavoratori non è altro che propaganda, e della peggior specie. È notizia di pochissimi giorni fa, per esempio, che i lavoratori tedeschi licenziati dal 2000 al 2011, sarebbero 570.000, 200.000 in più rispetto a quelli licenziati in Italia Con questo non abbiamo intenzione di rovesciare la vulgata e farci prendere la mano affermando che in Germania si stia peggio che da noi. Ci interessa però, e molto, ragionare su quanto le condizioni della classe operaia in Europa siano sotto un attacco uniforme, al di là delle apparenze e delle ovvie ma non centrali differenze; e ancora di più ci interessa rompere con quell’opinione secondo cui esisterebbe un blocco di paesi “nordici”, ricchi, favoriti dall’euro, portatore di interessi omogenei, e una borghesia “mediterranea” vittima del primo blocco e, di conseguenza, anch’essa portatrice di interessi significativamente omogenei insieme ai lavoratori del sud dell’Eurozona. Corollario a questa interpretazione è l’assunto di una certa condizione di maggiore privilegio in cui vivrebbe la classe lavoratrice “nordica”, il cui essere, secondo questa lettura, “aristocrazia operaia”, l’avvicinerebbe ai padroni di casa propria distaccandola dai lavoratori del sud Europa.
A noi questo quadro non convince.
Il lavoratore tedesco non si trova in una situazione di privilegio: le migliori condizioni economiche e finanziarie della Germania (che non neghiamo), la posizione di predominio del Marco sulle altre monete quando si trattò di varare l’Euro, l’indebitamento maggiore di alcuni Paesi europei proprio per alimentare i consumi della produzione tedesca, non hanno certamente avuto ricadute positive sui lavoratori, anzi sono state costruite sulla loro pelle.
Abbiamo già descritto l’applicazione, tra il 2003 e il 2007, del pacchetto Hartz. Gli effetti di questa precarizzazione si sentono adesso, considerato il peggioramento delle condizioni di lavoro e considerata la sempre maggiore possibilità per le fabbriche tedesche di delocalizzare.
La crisi europea ha trovato un proletariato già fiaccato da una selvaggia deregolamentazione dei contratti di lavoro, da una precarizzazione dell’esistente e da un massacro sociale passato per la possibilità di assumere lavoratori con salari di un euro all’ora (si tratta dei famosi 1-Euro Jobs, introdotti in Germania dal famigerato pacchetto di riforme Hartz), taglio dei sussidi e dei servizi sociali, ma soprattutto corporativismo.
La classe tedesca sembra tutt’altro che una “aristocrazia” operaia che guadagna stipendi favolosi. Le agitazioni e gli scioperi di cui abbiamo dato notizia sono scioperi che coinvolgono distretti produttivi importanti e denunciano condizioni di lavoro disumane. La OPEL di Bochum, dopo drastiche riduzioni del personale, verrà chiusa definitivamente nel 2016 (si parla addirittura di un anticipo della chiusura nel 2014); la Neupack di Amburgo è in sciopero dal 1 Novembre, con livelli di scontro molto forti, considerato che la polizia ha recentemente caricato un tentativo di picchetto per bloccare i crumiri reclutati dai padroni dalla vicina Polonia. La lotta dei lavoratori della Neupack è particolarmente indicativa, per l’interessamento anche della NPD, Partito nazional-democratico; una formazione di estrema destra, neo-nazista che ha gettato benzina sul fuoco, cercando di stemperare il conflitto di classe con l’odio razziale; difendendo i fantomatici “privilegi” dei lavoratori “tedeschi”. Gli operai della Neupack, però, hanno risposto con un comunicato, rifiutando non solo la solidarietà nazionale, ma invitando a spostare ogni lotta sul piano internazionale. Evidentemente, dalle lotte si impara sempre qualcosa in più. Le condizioni di sfruttamento della classe sul piano internazionale – ferme restando determinate distinzioni – tendono sempre di più a livellarsi. E a questo proposito il processo di integrazione europea non può essere che un acceleratore. Recentemente un altro stabilimento industriale è entrato in sciopero: la MAN di Monaco. Nella ricca Baviera, una dei più importanti produttori di camion e pullman ha visto gli operai chiamare uno sciopero per rivendicare migliori condizioni di lavoro, uguale trattamento dei lavoratori, meno precarietà, e – fra le altre cose – la fine della produzione di macchine militari. Questa agitazione in particolare, denuncia la logica corporativa che vede i sindacati protagonisti di accordi sulla pelle dei lavoratori. Le dirigenze sindacali, che siedono nei consigli di amministrazione, sarebbero preoccupate più delle condizioni economiche dell’azienda che del trattamento dei lavoratori. La tanto sbandierata “partecipazione” degli operai alle decisioni di fabbrica, non si rivela altro che il tentativo (in Germania perfettamente riuscito) della corporativizzazione dei sindacati, che solo a condizione di condividere il destino (e solo parte dei profitti, come azionisti) delle imprese, possono avere voce in capitolo e possono avere riconosciuto il diritto di essere rappresentativi. In Italia abbiamo già visto tentativi del genere; lo strappo di Marchionne in questa direzione è storia di oggi, ma storia di domani sono le regole sulla rappresentanza e i contratti che si prospettano all’orizzonte e il tentativo di ridurre i sindacati a un ruolo meramente consultivo (superando così la già terribile pratica concertativa), e pensando a possibilità di cooperazione tra “parti sociali”. Il che – ovviamente – ci riporta a qualcosa di già visto 80 anni fa e che è l’esatto contrario del controllo operaio.
A giudicare dalle dichiarazioni di Grillo, dalle aperture in questo senso del PD e dall’agenda del lavoro Monti-Ichino, sembra che proprio su questa “germanizzazione” delle condizioni dei lavoratori si giocherà molto delle future politiche economiche. Sembra che il lavoratore italiano debba diventare più tedesco, così come – dieci anni fa – il lavoratore tedesco doveva precarizzarsi e diventare più italiano. Se questo è il loro modello tedesco, il nostro deve continuare a essere Karl Marx. Nell’attacco alla classe operaia la borghesia europea è già sufficientemente unita, e il lavoro che le resta da fare in questo senso procederà a marce forzate; a noi tocca lo sforzo di non essere miopi e scegliere le lenti giuste, che ci impediscano di vedere i nostri vicini più distanti di quanto non siano in realtà.