L’illusione di Oslo: a vent’anni dagli accordi, un contributo di Adam Hanieh

[Adam Hanieh è un compagno, docente alla Scuola di Studi Africani e Orientali dell’Università di Londra, autore di numerosi contributi sulla questione palestinese pubblicati in importanti riviste. In occasione del ventennale degli accordi di Oslo ha pubblicato, sul magazine online Jacobin, un’interessante riflessione si ciò che Oslo ha comportato e sul da farsi, che abbiamo ritenuto utile tradurre in italiano. L’originale è qui]

Quest’anno cade il ventesimo anniversario dalla firma degli accordi di Oslo tra l’OLP e il governo israeliano. Ufficialmente conosciuti come la Dichiarazione di Principi sugli accordi di autogoverno provvisorio, gli accordi di Oslo erano fortemente connessi al quadro della soluzione dei due stati, dichiarando “la fine di decenni di confronto e conflitto, il riconoscimento della “mutua legittimità e dei diritti politici” e l’obiettivo di ottenere “ la coesistenza pacifica, la mutua dignità e sicurezza e… un accordo di pace semplice, definitivo e di buon senso.

I suoi sostenitori sostenevano che con Oslo Israele avrebbe gradualmente lasciato il controllo dei territori nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, con la neonata Autorità Palestinese incaricata di formare uno Stato indipendente lì. Il processo di negoziato, e il conseguente accordo tra OLP e Israele, invece aprì la strada alla situazione attuale nella Cisgiordania e a Gaza. L’AP, che ora governa su circa 2,6 milioni di Palestinesi in Cisgiordania, è diventata la chiave di volta della strategia politica palestinese. Le sue istituzioni hanno tratto legittimità internazionale da Oslo, e il suo invocato obiettivo di costruire uno Stato Palestinese indipendente rimane sepolto nello stesso quadro. Gli incessanti richiami per un ritorno ai negoziati – fatti da USA e leader europei quasi ogni giorno – riportano ai principi elaborati nel Settembre del 1993.

Dopo due decenni, è ora normale sentir parlare di Oslo come di un “fallimento” dovuto alla perdurante realtà dell’occupazione israeliana. Il problema con questo assunto è che confonde gli obiettivi dichiarati di Oslo con quelli reali. Dal punto di vista del governo israeliano, l’obiettivo di Oslo non era terminare l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, oppure affrontare questioni sostanziali sull’esproprio palestinese, ma qualcosa di molto più funzionale. Creando la percezione che i negoziati avrebbero portato ad una sorta di “pace”, Israele fu abile a dipingere le proprie intenzioni come quelle di un partner piuttosto che di un nemico della sovranità palestinese.

Sulla base di questa percezione, il governo israeliano ha usato Oslo come una foglia di fico per coprire il suo consolidato e profondo controllo sulla vita palestinese, utilizzando gli stessi meccanismi strategici sperimentati dai tempi dell’occupazione del 1967. Costruzione di insediamenti, restrizioni ai movimenti dei Palestinesi, carcerazioni di migliaia di persone, controllo sulle frontiere e sulla vita economica: tutto teso a formare un complesso sistema di controllo. Un Palestinese può presiedere all’amministrazione del quotidiano degli affari palestinesi, ma il potere definitivo resta nelle mani di Israele. Questa struttura ha raggiunto il suo apice nella Striscia di Gaza, dove oltre 1,7 milioni di persone sono costrette in una piccola enclave con l’entrata e l’uscita di beni e persone fortemente determinata dai diktat israeliani.

Oslo ha avuto anche un pericoloso effetto politico. Riducendo la lotta palestinese a un baratto di piccoli pezzi di terra in Cisgiordania e nella Striscia, Oslo ha ideologicamente disarmato la non insignificante parte del movimento politico palestinese che invocava la resistenza a oltranza contro il colonialismo israeliano e auspicava il genuino soddisfacimento delle aspirazioni palestinesi. La più importante di queste aspirazioni era la richiesta del diritto al ritorno per i profughi palestinesi espulsi nel 1947 e nel 1948, Oslo ha reso il confronto su questi temi sciocco e irrealistico, normalizzando un deludente pragmatismo piuttosto che affrontando le radici fondative dell’esilio palestinese. Fuori dalla Palestina, Oslo ha fatalmente indebolito l’estesa solidarietà e simpatia con la lotta palestinese costruita durante gli anni della prima Intifada, rimpiazzando l’orientamento al supporto collettivo con la fede nei negoziati guidati dai governi occidentali. I movimenti di solidarietà ci hanno messo un decennio per ricompattarsi.

Così come ha indebolito il movimento palestinese, Oslo ha aiutato a rafforzare la posizione regionale di Israele. La percezione illusoria che Oslo avrebbe portato alla pace permise ai governi Arabi, guidati dalla Giordania e dall’Egitto, di stringere accordi economici e politici con Israele sotto gli auspici americani ed europei. Israele fu così abile a liberarsi dal boicottaggio arabo, il cui costo è stato stimato in circa 40 miliardi di dollari dal 1948 al 1994. Ancora più significativamente, una volta che Israele è stata tirata fuori dal congelatore, fondi internazionali hanno potuto investire nell’economia israeliana senza paura di attirare il boicottaggio secondario da parte dei partner economici arabi. In tutti questi modi, Oslo ha rappresentato lo strumento ideale per fortificare il controllo israeliano sui Palestinesi e simultaneamente rafforzare la propria posizione con il Medio Oriente allargato. Non c’è stata contraddizione tra il supporto al “processo di pace” e il rafforzamento della colonizzazione – il primo fortemente perseguito per rafforzare la seconda.

E’ importante ricordare che dietro il clamore delle star internazionali per Oslo – coronato dal premio Nobel per la pace vinto congiuntamente dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, il ministro degli esteri Shimon Peres e il leader dell’OLP Yasser Arafat nel 1994 – un pugno di voci perspicaci aveva previsto la situazione che affrontiamo oggi. Degno di nota tra di loro fu Edward Said, che scrisse molto contro Oslo, commentando che firmarlo mostrava “il degradante spettacolo di Yasser Arafat che ringraziava chiunque per la sospensione della maggior parte dei diritti del suo popolo, e la fatua solennità della performance di Bill Clinton, che come un imperatore romano del ventesimo secolo accompagnava due re vassalli attraverso rituali di riconciliazione e obbedienza”. Descrivendo l’accordo come “uno strumento della resa palestinese, una Versailles palestinese”, Said sottolineò che l’OLP sarebbe diventato “un rinforzo di Israele”, aiutando Israele ad approfondire il suo dominio economico e politico dei Territori Palestinesi e consolidando “uno stato di dipendenza permanente”. Al di là del fatto che analisi come quella di Said sono importanti da richiamare semplicemente per la loro notevole preveggenza e come contrappunto alla costante mitizzazione del fatto storico, esse sono particolarmente significative oggi dal momento che tutti i leader mondiali continuano a giurare fedeltà ad un chimerico “processo di pace”.

Una questione che spesso resta inaffrontata nell’analisi di Oslo e della strategia dei due stati è perché la leadership palestinese installatasi in Cisgiordania sia stata così volenterosamente complice di questo progetto disastroso. Troppo spesso la spiegazione è essenzialmente tautologica – qualcosa di simile a “la leadership palestinese ha preso cattive decisioni perché sono leader di scarso valore”. Il dito è spesso puntato sulla corruzione, o sulle difficoltà del contesto internazionale che limiterebbero il numero delle opzioni disponibili. Ciò che manca da questo tipo di spiegazioni è un fatto schietto: alcuni Palestinesi hanno un grosso vantaggio nella continuazione dello status-quo. Negli ultimi due decenni, l’evoluzione del ruolo di Israele ha prodotto cambiamenti profondi nella natura della società palestinese. Questi cambiamenti sono stati concentrati in Cisgiordania, alimentando una base sociale che sostiene la traiettoria politica della leadership palestinese nel suo desiderio di abbandonare il diritto al ritorno dei Palestinesi per essere incorporati nelle strutture del colonialismo israeliano. È questo processo di trasformazione socioeconomica che spiega la sottomissione della leadership palestinese a Oslo e pone la necessità di una rottura radicale con la strategia dei due stati.

La base sociale di Oslo e la strategia dei due stati

Il dispiegarsi del processo di Oslo è stato ultimamente plasmato dalle strutture di occupazione messe in essere da Israele nei decenni precedenti. Durante questo periodo, il governo Israeliano ha lanciato una campagna sistematica per confiscare la terra palestinese e costruire insediamenti nelle aree dalle quali i Palestinesi sono stati cacciati durante la guerra del 1967. La logica di questi insediamenti era incarnata nei due maggiori piani strategici, il Piano Allon (1967) e il Piano Sharon (1981). Entrambi questi piani prevedevano di stabilire gli insediamenti israeliani tra i principali centri abitati palestinesi e sopra sorgenti d’acqua e terre fertili per l’agricoltura. Una rete di strade tutta israeliana avrebbe poi connesso questi insediamenti l’uno all’altro e anche alle città israeliane fuori dalla Cisgiordania. In questo modo, Israele ha potuto sequestrare terre e risorse, dividere i Territori Palestinesi tra di loro e evitare la responsabilità diretta per la popolazione palestinese quanto più fosse possibile. L’asimmetria del controllo israeliano e palestinese sulla terra, le risorse e l’economia ha significato che i contorni della formazione dello Stato Palestinese erano completamente dipendenti dal disegno israeliano.

Combinato con le restrizioni militari agli spostamenti dei contadini palestinesi e al loro accesso all’acqua e ad altre risorse, le massicce ondate di confisca di terre e costruzione di insediamenti durante i primi due decenni di occupazione hanno trasformato la proprietà fondiaria palestinese e i modi di riproduzione sociale. Dal 1967 al 1974, l’ammontare di terra coltivata palestinese in Cisgiordania è scesa di circa un terzo. L’esproprio di terra nella valle del Giordano da parte dei coloni israeliani ha significato che l’87% di tutta la terra irrigata in Cisgiordania è stata sottratta ai Palestinesi. I militari impedivano l’apertura di nuovi pozzi per scopi agricoli e restringevano l’uso di acqua da parte dei Palestinesi, mentre i coloni israeliani erano incoraggiati a usare più acqua del necessario.

Con questa deliberata distruzione del settore agricolo, i più poveri tra i Palestinesi, particolarmente i giovani – hanno abbandonato le aree rurali e si sono ricollocati nelle costruzioni e nel settore agricolo in Israele. Nel 1970, il settore agricolo includeva oltre il 40% della forza lavoro della Cisgiordania. Dal 1987 questa percentuale è scesa al 26%. L’agricoltura palestinese è scesa dal 35% al 16% del PIL tra il 1970 e il 1991.

Nel quadro stabilito dagli accordi di Oslo, Israele ha incorporato senza soluzione di continuità questi cambiamenti in Cisgiordania in un completo sistema di controllo. La terra palestinese è stata gradualmente trasformata in un patchwork di enclavi isolate, con i tre aggregati principali nel nord, centro e sud della Cisgiordania divisi l’uno dall’altro da blocchi di insediamenti. All’AP è stata garantita una limitata autonomia nelle aree dove la maggior parte dei Palestinesi viveva (le cosiddette aree A e B), ma gli spostamenti tra queste aree potevano essere interdetti in ogni momenti dall’esercito israeliano. Tutti i movimenti da e vero le aree A e B, così come la determinazione dei diritti di residenza in queste aree, erano sotto l’autorità israeliana. Israele controllava anche la grande maggioranza delle fonti acquifere, tutte le risorse del sottosuolo e tutto lo spazio aereo della Cisgiordania. I Palestinesi si sono così affidati alla discrezione israeliana per la loro acqua e i rifornimenti energetici.

Il controllo completo di Israele sulle frontiere, codificato nei protocolli di Parigi sulle relazioni economiche tra AP e Israele del 1994, ha significato che era impossibile per l’economia palestinese sviluppare significative relazioni commerciali con un paese terzo. Il Protocollo di Parigi ha dato a Israele la parola definitiva su ciò che l’AP poteva o non poteva importare e esportare. La Cisgiordania e la Striscia di Gaza divennero così fortemente dipendenti dai beni importati, con un tasso totale di import tra il 70% e l’80% del PIL. Dal 2005, l’Ufficio centrale di Statistica Palestinese ha stimato che il 74% di tutte le importazioni in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza venivano da Israele mentre l’88% delle esportazioni erano destinate a Israele.

Senza una reale base economica, l’AP era completamente dipendente dai flussi di capitale straniero, sotto forma di aiuti o prestiti, che erano sempre sotto controllo israeliano. Tra il 1995 e il 2000, il 60% delle entrate dell’AP veniva da tasse indirette raccolte dal governo israeliano sui beni importati dall’estero e destinati ai territori occupati. Queste tasse erano riscosse dal governo israeliano e poi trasferite all’AP ogni mese secondo un processo delineato dal Protocollo di Parigi. L’altra fonte principale di denaro dell’AP veniva dagli aiuti di USA, UE, paesi Arabi. Per questi motivi, le percentuali di aiuti sul PIL indicavano che la Cisgiordania e la Striscia di Gaza erano tra le regioni più dipendenti dagli aiuti stranieri del mondo.

Cambiare la struttura del lavoro

Questo sistema di controllo ha generato due cambiamenti principali nella struttura socioeconomica della società palestinese. Il primo di questi è collegato alla natura del lavoro palestinese, che è diventato sempre più un rubinetto che può essere aperto o chiuso d’accordo con la situazione economica e politica e le esigenze del capitale israeliano. Iniziando nel 1993, Israele ha scientemente lavorato per sostituire la forza lavoro palestinese che veniva quotidianamente dalla Cisgiordania con lavoratori stranieri dall’Asia e dall’Europa dell’Est. Questa sostituzione è stata parzialmente consentita dalla minore importanza dell’edilizia e dell’agricoltura dal momento che l’economia israeliana ha abbandonato questi settori nel 1990 per andare verso l’industria dell’hi-tech e l’esportazione di capitale finanziario.

Tra il 1992 e il 1996, la forza lavoro palestinese in Israele è passata da 116000 lavoratori (il 33% della forza lavoro palestinese) a 28100 lavoratori (il 6% della forza lavoro palestinese. I guadagni derivanti dal lavoro in Israele sono crollati dal 25% del PNL nel 1992 al 6% del 1996. Tra il 1997 e il 1999, una svolta nell’economia israeliana ha visto il numero assoluto di lavoratori palestinesi risalire all’incirca al livello pre 1993, ma la proporzione della forza lavoro palestinese impiegata in Israele era senza dubbio circa la metà di quanto era stata un decennio prima.

Invece di lavorare dentro Israele, i Palestinesi sono diventati sempre più dipendenti dall’impiego nel settore pubblico dell’AP o dai trasferimenti di denaro fatti dall’AP alle famiglie di prigionieri, martiri, o ai bisognosi. Il pubblico impiego assomma a un quarto del totale in Cisgiordania e nella Striscia dal 2000, un livello che è già quasi il doppio rispetto al 1996. Più della metà delle spese dell’AP erano per gli stipendi degli impiegati pubblici. Il settore privato copre pure una fetta sostanziale dell’impiego, in particolare nel settore dei servizi. Questi sono largamente dominati da piccole imprese a gestione familiare – oltre il 90% delle imprese private palestinesi impiega meno di dieci persone – come risultato di decenni di politiche israeliane di depotenziamento.

Il Capitale e l’Autorità Palestinese

Oltre alla crescente dipendenza delle famiglie palestinesi dall’impiego o dai pagamenti dal parte dell’AP, la seconda grande ragione della trasformazione socioeconomica della Cisgiordania è collegata alla natura della classe capitalista palestinese. In una situazione di produzione locale debole e di dipendenza estremamente alta dalle importazioni e dagli afflussi di capitale straniero, il potere economico della classe capitalista palestinese in Cisgiordania non è derivato dall’industria locale, ma piuttosto dalla vicinanza all’AP come fonte principale di afflussi di capitale. Attraverso gli anni di Oslo, questa classe è venuta fuori dalla fusione di tre distinti gruppi sociali: capitalisti “rientrati”, principalmente borghesia palestinese emersa nei paesi del Golfo con forti collegamenti con l’AP; famiglie e individui che hanno storicamente dominato la società palestinese, spesso grandi proprietari terrieri del periodo pre-1967, particolarmente nelle zone nord della Cisgiordania; infine quelli che hanno provato ad accumulare benessere attraverso la loro posizione di interlocutori con l’occupazione dal 1967.

Mentre le appartenenze a questi tre gruppi si sono considerevolmente sovrapposte, il primo è stato particolarmente significativo per la natura dello Stato e la formazione della classe in Cisgiordania. I flussi finanziari provenienti dal Golfo hanno a lungo giocato un ruolo importante nel moderare gli aspetti più radicali del nazionalismo palestinese; ma la loro congiunzione con il processo di costruzione dello Stato avviato ad Oslo ha radicalmente approfondito le tendenze alla statizzazione e alla burocratizzazione del progetto nazionale palestinese stesso. Questa nuova configurazione tripartita della classe capitalista tendeva a ricavare il suo benessere da una relazione privilegiata con l’AP, che ha assistito alla sua crescita garantendo i monopoli per beni come il cemento, il petrolio, la farina, l’acciaio e le sigarette; concedendo esclusivi permessi di importazione ed esenzioni personalizzate; dando diritti esclusivi per la distribuzione di beni in Cisgiordania e nella Striscia; distribuendo infine terra di proprietà governativa al di sotto del suo valore. In aggiunta a queste forme di accumulazione assistite dallo Stato, la maggior parte degli investimenti che sono arrivati in Cisgiordania da donatori stranieri duranti gli anni di Oslo – costruzione di infrastrutture, nuovi progetti edilizi, sviluppo turistico e agricolo – erano normalmente connessi in qualche modo con questa nuova classe di capitalisti.

In questo contesto la posizione totalmente subordinata dell’AP, la possibilità di accumulare è stata sempre legata al consenso di Israele e ciò ha avuto un prezzo politico – calcolato per comprare il consenso con la perdurante colonizzazione e con la resa forzata. Ciò ha anche significato che le componenti chiave dell’élite palestinese – i ricchi uomini d’affari, la burocrazia statale dell’AP e i resti della stessa OLP, sono arrivati a condividere un interesse comune nel progetto politico israeliano. La crescita rampante del clientelismo e della corruzione sono stati la logica conseguenza di questo sistema, come una sorta di sopravvivenza individuale dipendente dalle relazioni personali con l’AP. La corruzione sistemica dell’AP che Israele e i governi occidentali hanno regolarmente lamentato tra gli anni ’90 e il nuovo millennio fu, in altre parole, una conseguenza necessaria e inevitabile del reale sistema che queste potenze hanno stabilito.

La svolta neoliberista

Queste due principali caratteristiche della struttura di classe palestinese – una forza lavoro dipendente dall’impiego nell’AP, una classe capitalista legata a doppio filo al potere di Israele e alle istituzioni della stessa AP – hanno continuato a caratterizzare la società palestinese in Cisgiordania nel primo decennio del XXI secolo. La divisione della Cisgiordania e della Striscia tra Fatah e Hamas nel 2007 ha rafforzato questa struttura, con la Cisgiordania soggetta ad ancora più complesse restrizioni di movimento e controllo economico. Contemporaneamente, Gaza si è sviluppata in una direzione diversa, con il potere di Hamas derivante dai profitti ricavati dal commercio attraverso i tunnel e gli aiuti da stati come il Qatar e l’Arabia Saudita.

In anni recenti, tuttavia, c’è stato un importante cambiamento nella traiettoria economica dell’AP, incarnato in un programma fortemente neoliberista basato sull’austerity nel pubblico impiego e su un modello di sviluppo orientato a una maggiore integrazione del capitale israeliano e palestinese nelle zone industriali orientate all’esportazione. Questa strategia economica ha solamente approfondito il legame del capitale palestinese con quello israeliano, trasformando le colpe del colonialismo israeliano nella reale struttura dell’economia palestinese. Ciò ha prodotto un aumento dei livelli di povertà e una crescente polarizzazione della ricchezza. In Cisgiordania il PIL pro capite è aumentato da 1400 dollari nel 2007 a circa 1900 dollari nel 2010, la crescita più veloce in un decennio. Allo stesso momento, il tasso di disoccupazione è rimasto essenzialmente costante al 20%, tra i più alti al mondo. Una delle conseguenze è stata un profondo livello di povertà: circa il 20% dei Palestinesi della Cisgiordania vivevano con meno di 1,67 dollari al giorno per famiglie di 5 persone nel 2009 e nel 2010. Nonostante questi livelli di povertà, il consumo del 10% più ricco è aumentato al 22,5% del totale nel 2010.

In queste circostanze, la crescita si è basata su incredibili aumenti nella spesa basata sul debito nei servizi e nell’immobiliare. Secondo la conferenza delle Nazioni Unite su Commercio e Sviluppo (UNCTAD), il settore degli alberghi e ristoranti è cresciuto del 46% nel 2010, mentre le costruzioni sono cresciute del 36%. Nello stesso tempo la manifattura è scesa del 6%. I livelli massimi del debito basato sui consumi sono indicati in percentuali dall’Autorità Monetaria Palestinese, che mostra che il totale del credito bancario è quasi raddoppiato tra il 2008 e il 2010. Gran parte di questo ha riguardato la spesa dei consumatori sull’immobiliare residenziale, sull’acquisto di automobili, o sulle carte di credito; l’ammontare del credito esteso per questi tre settori è aumentato di un notevole 245% tra il 2008 e il 2011. Queste forme di credito al consumo e mutui possono potenzialmente portare profonde implicazioni su come le persone vedono la loro capacità di lotta sociale e la loro relazione con la società. Sempre più catturati in una rete di relazioni finanziarie, gli individui cercano di soddisfare le loro necessità attraverso il mercato, di solito prendendo soldi in prestito, piuttosto che attraverso la lotta collettiva per i diritti sociali. La crescita di queste relazioni finanziarie basate sul debito individualizza così la società palestinese. Essa ha avuto una influenza conservatrice sulla seconda metà degli anno ’00, con il grosso della popolazione preoccupato per la “stabilità” e la possibilità di saldare i debiti piuttosto che la capacità di resistenza popolare.

Oltre l’Impasse?

L’attuale cul de sac della strategia politica palestinese è inseparabile dalla questione della classe. La strategia dei due stati che ha preso corpo a Oslo ha prodotto una c lasse sociale che trae significativi benefici dalla sua posizione relativa ai negoziati e dai suoi legami con le strutture di occupazione. Questa è la ragione definitiva dell’atteggiamento politico supino dell’AP, e ciò significa che un aspetto centrale della ricostruzione della Resistenza Palestinese deve necessariamente confrontarsi con la posizione di queste elites. Negli ultimi anni ci sono stati segni incoraggianti in questo senso, con l’emergere di movimenti di protesta che hanno affrontato le condizioni economiche in deterioramento nella Cisgiordania e hanno esplicitamente denunciato il ruolo dell’AP in questo declino. Ma finché i principali partiti politici palestinesi continuano a subordinare le questioni di classe alla supposta necessità di unità nazionale sarà molto difficile per questi movimenti trovare un coinvolgimento maggiore.

Inoltre, la storia degli ultimi due decenni mostra che il modelli “falchi e colombe” della politica israeliana, così popolare nella copertura superficiale dei media di regime e condiviso a cuore pieno dalla leadership palestinese in Cisgiordania è decisamente falso. La forza è stata la levatrice fondamentale dei negoziati di pace. Piuttosto, l’espansione degli insediamenti, le restrizioni agli spostamenti e la permanenza si un potere militare hanno reso possibile la codificazione del controllo di Israele attraverso gli accordi di Oslo. Ciò non è per negare che differenze sostanziali esistono tra un continuum piuttosto che un taglio netto. La violenza e i negoziati sono aspetti complementari e reciprocamente rafforzantisi di un comune progetto politico, condiviso da tutti i partiti mainstream, ed entrambi portano in tandem ad approfondire il controllo israeliano sulla vita palestinese. Gli ultimi due decenni hanno potentemente confermato questo fatto.

La realtà del controllo israeliano oggi è l’emergere di un singolo processo che ha necessariamente unito violenza e l’illusione di negoziati come fossero una alternativa pacifica. La contrapposizione tra gli estremisti di destra e il cosiddetto fronte pacifista israeliano serve a offuscare la centralità della forza e il controllo coloniale incarnato nel programma politico degli ultimi.

La ragione di ciò è l’assunzione condivisa dalla sinistra sionista e dalla destra che i diritti palestinesi possono essere ridotti al problema di uno Stato da qualche parte della Palestina storica. La realtà è che il progetto degli ultimi 63 anni di colonizzazione in Palestina è stato il tentativo dei vari governi israeliani di dividere e frammentare il popolo Palestinese, tentando di distruggere una coesiva identità nazionale separandoli gli uni dagli altri. Questo processo è chiaramente illustrato dalle differenti categorie di Palestinesi: rifugiati, che restano confinati nei campi sparsi nella regione; quelli rimasti sulle loro terre nel 1948 e dopo sono diventati cittadini dello Stato di Israele; quelli che vivono nei cantoni isolati della Cisgiordania, e ora quelli separati dalla frammentazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Tutti questi gruppi costituiscono la nazione Palestinese, ma la negazione della loro unità è stata la logica dominante della colonizzazione da prima del 1948. Sia la sinistra sionista che la destra concordano con questa logica, e si sono mosse all’unisono per limitare la questione palestinese a isolati frammenti della nazione come fossero un tutto. Questa logica è anche completamente accettata dall’AP ed è incarnata nella sua visione della “soluzione dei due stati”.

Oslo può essere morta, ma il suo cadavere putrido non è ciò che ogni Palestinese dovrebbe sperare di resuscitare. Ciò che è necessario è un nuovo orientamento politico che rifiuti la frammentazione dell’identità palestinese in zone geografiche frammentate. È incoraggiante vedere il coro montante di chiamate ad un riorientamento della strategia palestinese, basata su un singolo Stato per tutta la Palestina storica. Questa posizione non sarà raggiunta solo con gli sforzi palestinesi. Essa richiede una sfida più ampia alle relazioni privilegiate di Israele con gli USA e alla sua posizione di Stato chiave del potere USA nel Medio Oriente. Ma una strategia per un solo Stato presenta una visione per la Palestina che conferma l’unità essenziale di tutti i settori del popolo Palestinese senza badare alla geografia. Essa fornisce inoltre uno strumento per connettersi con quella parte del popolo israeliano che rifiuta il sionismo e il colonialismo nella speranza di una futura società che non discrimini sulla base dell’identità nazionale e nella quale si possa vivere senza badare alla religione o all’etnia. È questa la visione che fornisce un percorso per avere insieme pace e giustizia.

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