Il nazionalismo può far bene alla sinistra? Un dibattito d’Oltralpe

[di seguito vi proponiamo la traduzione di due interventi pubblicati sul sito francese Bastamag. Nel primo intervento si sostiene che la sinistra abbia perso terreno contro il FN per aver rinunciato a determinate idee di “comunità” che il FN ha fatto proprie contro la globalizzazione; il secondo intervento smonta questa tesi e rilancia la prospettiva internazionalista. Riteniamo importante la condivisione di questo botta e risposta perché siamo, purtroppo, coscienti e consapevoli di quanto determinate idee stiano letteralmente avvelenando il movimento della sinistra di classe. Di fronte all’innegabile debolezza “congiunturale” dell’opzione comunista, sempre più spesso ci si lascia suggestionare da risposte reazionarie all’attacco del capitale – nazionalismi, comunitarismi, autonomismi vari – invece di concentrarsi sul rilancio dei fondamentali ideologici della sinistra: internazionalismo, rivoluzione.]

Possiamo ancora salvare la Sinistra radicale?

Il filosofo Jean-Claude Michéa ha recentemente proposto, partendo da Orwell, un teorema da considerare con attenzione: Quando l’estrema destra avanza tra la gente comune, è innanzitutto su sé stessa che la sinistra dovrebbe interrogarsi. Le recenti lacrime elettorali di Jean-Luc Mélenchon hanno a che vedere con questo assunto. Cadono come un’analisi di quel 30-35% di disoccupati, giovani e operai che ha votato Front National, come una confessione del fatto che la Sinistra radicale non era, ai loro occhi, un avversario sufficientemente affidabile del mondo attuale.

Ciò che domina in effetti oggi nel corpo largo della popolazione, quello delle classi medie messe di fronte alla precipitazione sociale, degli esclusi della mondializzazione, dei “piccoli” (operai, impiegati, pensionati di queste categorie, disoccupati, piccoli contadini…), è il sentimento acerbo di una fragilità generalizzata alla quale niente deve sfuggire (lavoro, competenze, saperi…), è l’impressione di essere messi di fronte a una società in perenne movimento, ingestibile, che non propone altro, come orizzonte, che l’emergenza e l’adattamento. Il PCF di un tempo ne assicurava la presa in carico elettorale, ne aveva ricevuto il titolo di tribuno del popolo. Perché non è più così?

 

Una società dove l’avvenire, il tenore di vita, il lavoro sono incerti

Il motivo è che il Front National ha una analisi terribilmente efficace della mondializzazione. Quest’ultima porta a ciò che Zygmunt Bauman chiama una società liquida, una società dove l’avvenire, il livello di vita, il lavoro sono incerti. Questa società si è data per anima i principi e i valori della fluidità, della rivoluzione della comunicazione permanente. Nella società precedente lo Stato-Nazione regolava, regnava, dava un’identità. Un lavoro poteva definire una vita, etc. Il capitalismo di quell’epoca aveva generato un potente doppio antagonista, sotto forma del movimento operaio che parlava, anche lui, il linguaggio “solido” delle classi, del destino identitario legato al lavoro, dello Stato, e anche della Nazione, com’è stato il caso di un PCF erede di una tradizione radicata nella Rivoluzione Francese.

Ciò che il voto FN manifesta è questa nostalgia del solido, del controllo collettivo sulla vita quotidiana, questo rifiuto dell’impotenza di fronte all’ineluttabilità dell’adattamento a “l’economia come essa è”…Su questo piano, è a tutto vantaggio del FN l’essere eternamente associato al Male dai gestori dell’adattamento forzato al nuovo corso del Capitalismo mondiale. Il dibattito è dunque ridotto a un duo in forma di caos mentale: Global Capitalism o Le Pen. Con dei nemici di questo tipo, il FN non ha certamente bisogno di amici.

 

La Sinistra radicale: uno stretto pubblico di cittadini diplomati

Di fronte a ciò, è lamentevole che il tema ormai tabù della Nazione non sia diventato un sintomo eloquente dell’incapacità della Sinistra radicale di adattarsi al suo presente. Così, lasciarsi andare a pensare che dei riferimenti fumosi all’Europa sociale, ad un ipotetico Smic (salario minimo, n.d.T.) europeo o alla “sovversione” dell’euro avrebbero impressionato l’elettore, riconquistato l’astensionista, tutto questo ha qualcosa di derisorio.

Mantenersi nel vago sul rapporto con l’Europa, con la sovranità, parlare, nello stesso momento, di orrore per le Frontiere e di sovranità popolari, significa condannarsi, entro un breve tempo, ad una fossilizzazione ineluttabile. Fenomeno tanto più affascinante dal momento che fino all’invenzione della Sinistra plurale (2002), non si trattava d’altro che del rifiuto de “l’Europa sovranazionale del Capitale”.

raffico universale? Che cosa diciamo a coloro per i quali la mondializzazione non è felice, e che interpretano l’oscurità su questo argomento come un silenzio sulla loro precarietà? Misuriamo la radicalità della separazione nella forma del baratro politico che costituisce l’astensione strutturale? Questa denuncia lo spossesso, la certezza dell’inutilità democratica riguardo il “corso delle cose”, il “a che serve”.

Dilaniata tra una identità operaia, popolare, sempre più lontana, una sorprendente conversione a un “sinistrismo” culturale apostolo della liberazione delle aspirazioni individuali, che non parla che a coloro che hanno i mezzi per realizzarle, e un’indecisione evidente su ciò che si deve conservare dello Stato-Nazione, la Sinistra radicale ha oggi l’aspetto di uno spettro informe. Essa non parla più che a un ristretto pubblico di cittadini, diplomati, lavoratori del servizio pubblico. Senza una revisione radicale delle proprie basi ideologiche, la vedremo ben presto solo negli ossari del defunto XX secolo.

 

 

Il nazionalismo, antidoto o veleno per la sinistra radicale?

La sinistra radicale intimata di riappropriarsi della Nazione

Il paradosso proposto dall’autore è il seguente: per “salvare la sinistra radicale”, servirebbe far bollire le idee del futuro nelle vecchie pentole di un tempo, e in particolare del vecchio PCF. Sarebbe sufficiente così alla sinistra radicale di riappropriarsi della Nazione, come il PCF aveva fatto nel 1935 su indicazione della direzione staliniana a Mosca – rompendo all’epoca con l’internazionalismo proletario del primo periodo dell’Internazionale comunista e della sua sezione francese – affinché cominci a riconquistare il terreno guadagnato pazientemente, da 30 anni, dal Front National.

Gli si potrebbe opporre che coloro che hanno intrapreso questa via politica non sono affatto giunti a ottenere successi elettorali, a stimolare la partecipazione politica nelle classi popolari o a farvi rinascere delle speranze progressiste, che si trattasse del MDC (Movimento dei cittadini) di Jean-Pierre Chevènement, del PRCF (Polo della rinascita comunista in Francia) o del M’PEP (Movimento politico di emancipazione popolare). È d’altronde abbastanza opinabile che queste organizzazioni raccolgano altro da “questo magro pubblico di cittadini, diplomati, lavoratori del servizio pubblico” che costituirebbero, secondo Thierry Blin, il corpo militante della sinistra radicale attuale.

Ma non ci si può accontentare di una tale risposta, che rapporta il valore politico delle idee al successo che incontrano in una determinata congiuntura. Se l’autore propone una strada errata ed un vicolo cieco al posto di una via d’uscita, come d’altronde, a titolo diverso, gli autori menzionati qui sopra, è perché la sua analisi delle cause dell’ascesa del FN e delle difficoltà della sinistra radicale è profondamente sbagliata. Secondo lui, le sconfitte elettorali della “sinistra di sinistra”, per parlare come Bourdieu, sarebbero causate non solamente dal suo rifiuto di invocare la Nazione come antidoto alla mondializzazione, ma anche dalla sua “sorprendente conversione a un sinistrismo culturale apostolo della liberazione delle aspirazioni individuali”, nel “vago” che essa manterrebbe “sul rapporto con l’Europa e la sovranità, e nella sua tendenza a “parlare, nello stesso tempo, dell’orrore per le Frontiere e delle sovranità popolari”. Al contrario, il FN sarebbe spinto da “un’analisi terribilmente efficace della mondializzazione” e il voto in suo favore tradurrebbe “una nostalgia del solido, del controllo collettivo sulla vita quotidiana”, e anche un “rifiuto dell’impotenza di fronte all’ineluttabilità dell’adattamento a “l’economia così com’è”.

Comprendere l’ascesa del FN e la sconfitta della sinistra radicale

Questo atteggiamento non è nient’altro che riprendere ciò che il FN dice di sé stesso, e prendere parte incidentalmente alla sua strategia di radicamento nel campo politico e nel tessuto sociale. Infatti, come mostrano le inchieste sul voto FN, e, a fortiori, sull’impegno militante dei suoi ranghi, ciò che mobilita i suoi elettori e unisce i suoi militanti è molto di più l’ostilità agli stranieri, la paura del declassamento e la nostalgia di una Francia bianca, che l’aspirazione positiva a veder realizzare altre politiche economiche, politiche contro l’austeirtà se non anticapitaliste, o a che la maggioranza della popolazione riprenda parola di fronte ai poteri politici, economici e finanziari.

È vero che le cause profonde dell’adesione crescente ai capricci elettorali del FN risiedono negli effetti della guerra di classe intrapresa dal padronato. Questo ha ingaggiato dagli anni ’80 un programma di distruzione delle solidarietà collettive. Organizzando l’indebolimento del movimento operaio, particolarmente attraverso il gioco avvelenato del “dialogo sociale”, ha progressivamente rinchiuso il movimento sindacale nella trappola della negoziazione a freddo, delegittimando la pratica della lotta di classe.

Nel campo politico, non sapremmo misconoscere l’importanza che hanno avuto non solo i tradimento dei governi PS da una trentina d’anni (dopo la sua conversione progressiva al neoliberalismo, oggi compiuta sotto la guida di Valls), ma anche l’accompagnamento da parte del PCF degli indietreggiamenti sociali e lo sconfittismo dei partiti alla sinistra del PS. È questo stesso sconfittismo che porta oggi alcuni a vedere nell’avanzata del FN non l’espressione dell’arretramento della sinistra, sulle questioni economiche (austerità) come sulle questioni del razzismo (discorso di Valls contro i Rom e i musulmani), dell’imperialismo (guerre condotte nel Mali e in Centrafrica, sostegno instancabile allo Stato d’Israele, etc.) o dell’immigrazione (espulsioni in massa di lavoratori senza documenti), ma il prodotto di una migliore comprensione, da parte del FN, della mondializzazione, dell’opportunità di uscire dall’euro o della necessità di ristabilire la sovranità nazionale contro Bruxelles. Così si trova sdoganata da ogni responsabilità nella sconfitta della sinistra radicale la strategia elettorale mortifera del PCF di alleanza col PS, mirante a conservare il proprio apparato e i propri eletti, e il rifiuto delle direzioni sindacali di organizzare, contro questa presunta sinistra al potere, una risposta sociale all’altezza degli attacchi che subiscono i salariati.

Non cedere di una virgola sull’internazionalismo

Si può pretendere di salvare la sinistra radicale riabilitando le frontiere, confondendo sovranità popolare e sovranità nazionale e inoculandole così il peggiore dei veleni, quello del nazionalismo, fosse anche di “sinistra”? Al contrario di questa regressione nazionalista che alcuni presentano come una formidabile innovazione, la sinistra radicale non può, a pena di scomparire definitivamente, cedere di una virgola sull’internazionalismo di fronte al doppio nemico che la situazione le pone davanti: il nazionalismo del FN che mira – in nome della Nazione, eretta a valore supremo – a unire delle classi fondamentalmente antagoniste contro i propri presunti nemici (interni ed esterni), e il sovranazionalismo del capitale (materializzato attraverso istituzioni come la Commissione Europea, la BCE, il FMI etc), che non smette di nutrire il primo imponendo regressioni sociali e arretramenti democratici. Essa è al contrario condannata – senza scorciatoie elettorali possibili, a ricostruire dei legami militanti in fabbrica e nei quartieri, a rifare dei collettivi laddove il capitalismi neoliberale rompe i quadri collettivi esistenti, a combattere il razzismo sistemico e l’islamofobia di Stato e a lottare attivamente, nell’unità, contro l’estrema destra per impedirne il radicamento nel tessuto sociale.

È a questo prezzo, e nell’indipendenza da un PS che si dedica a gestire lealmente gli interessi del capitale, che potrà emergere una sinistra radicale legata organicamente alle classi popolari. Non ci si stupirà, d’altronde, per il fatto che, sostituendo l’unione nazionale alla mobilitazione di classe, Thierry Blin, che non manca di violenza aspra nel criticare l’allontanamento della sinistra radicale dalle classi popolari, non pronunci una parola né sul necessario confronto sociale e politico con le classi proprietarie, né sul programma d’urgenza che potrebbe difendere unanimemente una sinistra radicale incarnante politicamente gli interessi delle classi popolari, al fine di evitare che queste ultime paghino la crisi del capitalismo: divieto dei licenziamenti, diminuzione del tempo di lavoro fino alla divisione del lavoro tra tutte e tutti, aumento generale dei salari, delle pensioni e delle minime sociali, divieto dei contratti precari, finanziamento pubblico di un piano di reclutamento nei settori sociali utili alla popolazione (educazione, salute, alloggi…), costruzione massiccia di abitazioni popolari, rivoluzione fiscale che accentui fortemente la progressività dell’importa, annullamento del debito illegittimo e socializzazione integrale del settore bancario.

 

Ugo Palheta

 

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