Papaveri e Papere: chi guadagna e chi perde negli anni della crisi

[Non è particolarmente originale ricordare di tanto in tanto delle banalità: ma in tempi interessanti come i nostri, dove spesso l’interpretazione della crisi più à la page rischia di nascondere il contenuto essenziale di essa, è utile ribadire dei punti fermi. Il rapporto BES 2013 dell’ISTAT e il quaderno “I.T.A.L.I.A.2013: Geografie del nuovo made in Italy” a cura di Unioncamere e della fondazione Symbola, ci aiutano a puntualizzare.]

Il rapporto “Benessere equo e sostenibile in Italia – 2013” curato dall’ISTAT consta di ben 274 pagine che affrontano diversi aspetti: salute, istruzione, benessere economico, lavoro e aspettative, ricerca e innovazione, etc etc. Le pagine 61-114 si concentrano sul mercato del lavoro e sulla distribuzione della ricchezza nel paese. Il quadro è non sorprendentemente sconfortante: diminuisce il tasso di occupazione, aumenta il tasso di ‘non partecipazione’ all’attività lavorativa (in particolare, alla ricerca di un lavoro); le differenze territoriali aumentano; il gap di genere diminuisce per il fatto semplice che gli indicatori relativi al lavoro maschile peggiorano e si avvicinano, di conseguenza a quelli relativi al lavoro femminile. Il lavoro a termine diventa senza termine: sempre più lavoratori hanno nei contratti a tempo determinato l’unica prospettiva, la stabilizzazione è meno di una chimera. Passando al capitolo successivo, la disuguaglianza di reddito tra le famiglie italiane più ricche (il 20%) e le più povere (il 20%) è aumentata senza soluzione di continuità negli ultimi anni: nel 2011 il reddito del 20% più ricco era 5,6 volte superiore a quello del 20% più povero, portando l’Italia al quinto posto in Europa per la disuguaglianza; il 10% del paese possiede il 45,9 % della ricchezza, mentre nel 2011 il 46,6% delle famiglie dichiarava di non potersi permettere una settimana di ferie fuori casa. Naturalmente, aumentano le differenze anche su base geografica, col reddito medio del Mezzogiorno pari a solo il 73% del reddito medio nazionale.

Diciamo che, pur apprezzando la ricchezza di dati che l’ISTAT fornisce, avremmo delle obiezioni sul titolo del rapporto: noi non vediamo benessere equo e sostenibile, ma piuttosto iniquo e insostenibile. Il benessere c’è, è innegabile, ma riguarda quel famoso 20% più ricco, e pochi altri: chi sono, come vivono, che fanno le famiglie di quel quantile?

Ecco che ci arriva in aiuto il quaderno della fondazione Symbola: le 204 pagine che lo compongono meriterebbero di essere lette tutte con un’attenzione di gran lunga maggiore della nostra, ad ogni modo nella prefazione emergono con chiarezza dati incontrovertibili sullo stato dell’impresa nazionale, uniti naturalmente ad un preciso intento politico dei commissionari, volto chiaramente all’ottimismo. Vale la pena di riportare direttamente un estratto:

L’Italia è uno dei soli 5 Paesi del G-20 (con Cina, Germania, Giappone e Corea) ad avere un surplus strutturale con l’estero nei prodotti manufatti non alimentari. Vantiamo quasi 1000 prodotti in cui siamo tra i primi tre posti al mondo per saldo commerciale attivo con l’estero. Vuol dire che se pensiamo al mercato globale come a un’olimpiade, ai prodotti come discipline sportive in cui vince chi ha un export di gran lunga superiore all’import, l’Italia arriva a medaglia quasi mille volte. Meglio di noi solo Cina, Germania e Stati Uniti. Può essere questo l’identikit di un Paese dalla “limitata capacità innovativa”?

E infatti siamo stati, nel 2012, i secondi in Europa, dopo la Germania, per attivo manifatturiero con i Paesi extra-UE (proprio quei mercati emergenti che secondo la Commissione ci avrebbero mandato a picco). La maggior parte di questo surplus, poi, non proviene dai settori tradizionali (il tessile, le calzature, il mobile), ma dalla meccanica e dai mezzi di trasporto. Tra i prodotti per i quali guadagniamo una medaglia per il saldo commerciale troviamo le tecnologie del caldo e del freddo, le macchine per lavorare il legno e le pietre ornamentali, oppure i fili isolati di rame e gli strumenti per la navigazione aerea e spaziale. Tutti oggetti così poco italiani, se continuiamo ad avere in testa l’Italia di 15-20 anni fa, che in realtà identificano la geografia di un nuovo made in Italy. E dimostrano che siamo stati in grado di risintonizzarci, con successo, sulle nuove frequenze del mercato globale. Senza, peraltro, perdere il presidio di quei settori per noi più abituali, per i quali manteniamo il più alto surplus in Europa con i Paesi extra-UE: ‘semplicemente’ occupando le fasce di più alto valore aggiunto, quelle del lusso e del design. Mentre frotte di analisti discutevano dei rischi e delle potenzialità insite nella crescita dei Paesi BRIC, un’avanguardia di imprese italiane era già sul posto, a fare da apripista e portabandiera: perché anche in quei Paesi la capacità, tutta italiana, di creare bellezza è uno dei beni più ambiti.”

Per la precisione, sono 946 i prodotti per i quali l’Italia si colloca al primo, secondo o terzo posto al mondo per saldo commerciale. In questa particolare classifica l’Italia è seconda solo alla Germania, che ha un medagliere più ricco. È estremamente significativo un aspetto riportato nella citazione e relativo alla tipologia di prodotti per i quali la manifattura italiana eccelle, che comprendono, ma vanno ben oltre, i tradizionali settori dell’abbigliamento, del design, dell’agroalimentare: 31,6 miliardi di dollari di saldo attivo sono stati generati nell’automazione meccanica, nella gomma e nella plastica; 4,3 miliardi di dollari per carta, vetro e industria chimica. Ancora, tra i primi 20 prodotti per i quali l’Italia ha il primato, ci sono tubi e fusioni in acciaio e alluminio, vetri di sicurezza per mezzi di trasporto, fili isolati in rame, macchine per imballaggio, tecnologie del caldo e del freddo. Ci sono primati curiosi come giostre, bottoni, fagioli, insalata, cicoria, tappi a corona e castagne, ma in generale il quadro che emerge è quello di un paese non solo florido da punto di vista manifatturiero, ma che ha saputo anche uscire dai settori più tradizionalmente “italiani” per affermarsi in produzioni che richiedono un notevole investimento in capitale fisso.

Certamente, rispetto ai diretti competitor – Stati Uniti, Cina, Germania – l’Italia continua a scontare un gap fondamentale relativo all’approvvigionamento di energia e materie prime, un gap che corregge in negativo il saldo della bilancia commerciale e che fa dire alla Commissione Europea che è un paese scarsamente competitivo, un gap non da poco, nel momento in cui la concorrenza interimperialista si gioca e si giocherà essenzialmente sull’aspetto energetico.

Ma è proprio su questo squilibrio che si fonda l’interesse strategico della borghesia produttiva italiana a restare nell’Unione Europea e nella moneta unica, anche a costo di guerre fratricide (ma quando mai la borghesia non le ha fatte?) e, soprattutto, anche a costo di rinunciare a una componente strutturale di quei benefici – elusione ed evasione fiscale, bassissimo costo del lavoro grazie alla diffusione e alla tolleranza del lavoro nero e grigio, agevolazioni contributive etc etc – che hanno storicamente compensato il relativamente minore investimento in ricerca, sviluppo e innovazione del capitale italiano (minore, come abbiamo visto, fino a un certo punto).

In particolare quelle strategie (evasione fiscale e lavoro nero) che finora hanno permesso a numerose imprese di avere un soddisfacente livello competitivo non possono essere più tollerate in un contesto continentale. Si cerca così di costruire un quadro normativo sempre più omogeneo, che permetta di tenere basso il costo del lavoro senza l’utilizzo di metodi difficilmente quantificabili e controllabili. Non c’è dubbio che per alcuni (forse per molti) questa prospettiva può significare la morte economica; ma le evoluzioni del capitalismo prevedono che qualcuno abbandoni il “campo”, selezionando chi può o vuole accedere alla partita della competitività su larga scala, ed essere protagonista nel processo di accentramento del capitale, che è nei fatti una opportunità da non sciupare.

Insomma, per i padroni italiani il percorso di rafforzamento dell’Unione Europea e dell’Euro, che garantisce un costo minore dell’import energetico e di materie prime, nonché una maggiore capacità di penetrazione di capitali finanziari all’estero, resta obbligato e strategico, nonostante gli innegabili rischi e “sacrifici” che esso comporta. Non c’è, per la borghesia imperialista continentale, indipendentemente dal paese in cui si colloca, alcuna alternativa credibile per resistere alla furibonda competizione globale: immaginare, sulla base di questa constatazione, un ipotetico “interesse nazionale” contrario, alternativo al processo unitario e all’Euro come moneta unica, è, nel migliore dei casi, una pia illusione.

Ma i dati dell’ISTAT e di Symbola non ci dicono solo questo: ci dicono anche, banalmente, che in questi anni di crisi c’è chi ha continuato a guadagnare, anche più di prima, approfittando della crisi per comprimere salari e diritti, scaricando il costo della ristrutturazione produttiva sui lavoratori. Per quanti sforzi facciamo, non riusciamo proprio a rappresentarci l’Italia, complessivamente intesa come entità nazionale, alla stregua di “vittima” dei paesi più forti; per quanti sforzi facciamo, continuiamo, piuttosto, a vedere il nemico in casa nostra, e milioni di suoi alleati in tutto il mondo.

Se l’interesse strategico della borghesia imperialista continentale si conferma essere, al netto della necessaria distruzione di grosse fette di capitale, un rafforzamento del processo unitario, è ovvio e banale ribadire che l’interesse strategico del proletariato è contro l’Unione Europea e contro l’Euro. Ciò non comporta automaticamente l’adesione ad alcuna ipotesi, variamente articolata, di ritorno alla “sovranità nazionale”, che sarebbe certamente perdente per il proletariato indebolito dalla divisione e, oltretutto, a differenza di quanto è accaduto altrove (ad esempio nei paesi dell’America Latina), risulterebbe estremamente difficile da congegnare attraverso un’alleanza con settori consistenti di borghesia, perché semplicemente non c’è una borghesia che abbia interesse ad uscire dall’Euro.

A otto anni di distanza, ci sembra utile recuperare l’analisi del processo costituente europeo fatta dal Collettivo Internazionalista di Napoli, della quale riportiamo, condividendolo, un passaggio conclusivo:

la critica di classe del “processo di integrazione europea” (e la costruzione di tale critica) è intrinsecamente e inconciliabilmente contrapposta a tutte quelle posizioni politiche che vagheggiano un “ritorno” alla dimensione “statuale nazionale”. Posizioni del genere, oltre ad essere profondamente reazionarie (anche quando pretendono di individuare lo Stato nazionale come unico “contenitore” “democratico” possibile), mirano: i) a spingere il proletariato nelle mani dei suoi aguzzini, legandolo a quelle frazioni e/o settori della classe dominante che ritengono di essere svantaggiati nella redistribuzione dei poteri e dei vantaggi economici derivanti dal “processo di integrazione”; ii) a rinchiudere il proletariato in un nuovo localismo impedendo ch’esso – seguendo i suoi reali interessi di classe e quindi attestandosi politicamente sul livello raggiunto dalla contraddizione forze produttive/rapporti sociali di produzione – sviluppi la propria autonomia e la necessaria coscienza internazionalista

Non possiamo che rifiutare ogni discorso che richiami nostalgicamente alla sovranità nazionale, comunque esso sia articolato. Ci si è spinti fino a immaginare una fuga solitaria dall’Euro attraverso la declinazione di un “nazionalismo democratico” (Mimmo Porcaro, qui): sono strade che lasciamo volentieri percorrere ad altri.

La realtà dimostra che la strada, per difficile che possa essere, è una: portare la lotta al livello immediatamente continentale, costruendo reti stabili di lavoratori e organizzazioni a livello europeo, lavorando alla costruzione di rivendicazioni comuni. Nessuno oggi sa come procedere, ma è indubbio che questo è il terreno sul quale i comunisti si devono rimettere in gioco.

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