Sussidio di disoccupazione e reddito minimo di sopravvivenza in Francia. Appunti

È del 22 marzo scorso la riunione di Governo e Sindacati francesi per una riforma dell’assurance chomage, il sussidio di disoccupazione francese. L’obiettivo? Ridurre il deficit e il debito accumulato dall’UNEDIC, ente gestore del fondo, riducendo valore dell’indennità e numero degli aventi diritto, spingendo all’accettazione di qualsivoglia lavoro, estendendo il pagamento dei contributi e l’ammontare degli stessi.

Come funziona oggi e come funzionerà domani (salvo sorprese)

A partire da 4 mesi lavorativi, anche non continuativi, svolti negli ultimi 28 mesi (36 per gli over 50) si matura il diritto al sussidio di disoccupazione, al 75% dell’ultimo stipendio, nella misura di un giorno di disoccupazione per ogni giorno lavorato, per un massimo di due anni (tre per gli over 50). Se durante i mesi di disoccupazione si accetta un nuovo lavoro, l’erogazione della disoccupazione viene sospesa per riprendere, nel caso, al termine del nuovo rapporto di lavoro, alle condizioni economiche migliori per il lavoratore: vale a dire, se il secondo lavoro porta un sussidio più alto, si considera il secondo al posto del primo.

Con la riforma, i diritti eventualmente acquisiti col secondo lavoro valgono solo a scadenza del sussidio legato alla prima occupazione, e solo se il secondo lavoro è durato almeno 150 ore. Nessuna scelta del trattamento più favorevole, dunque, ma un semplice cumulo, fino a esaurimento scorte.

Il pagamento dei contributi per la cassa UNEDIC viene esteso anche agli over 65; particolarmente spinosa, in Francia, e foriera di lotte, è la questione legata ai cd. Intermittenti dello spettacolo che, data la particolare natura del loro lavoro, sono gli unici autorizzati a cumulare nello stesso mese indennità e salario. Gli intermittenti sono spesso stati additati come fannulloni, spreconi, vera causa del deficit dell’UNEDIC, per cui su di loro è caduta la mannaia: tetto massimo fissato per il cumulo e aumento della percentuale contributiva al 12,8%, di cui l’8% a carico dell’imprenditore e il 4,8% a carico del lavoratore. Peccato che, tolte le grandi produzioni cinematografiche e televisive, spesso sono gli stessi precari dello spettacolo ad essere “imprenditori” di loro stessi, e quindi a pagarsi per intero il consistente aumento contributivo.

Un’ulteriore obiettivo è quello di favorire i disoccupati che si trovano nella possibilità di cumulare due o più lavori: insomma, letta la riforma dal punto di vista del capitale, lo scopo è spingere i lavoratori ad accettare qualunque tipo di contratto e di trattamento economico, per cumulare “diritti”, favorendo così l’ulteriore sviluppo della precarietà in Francia, alla faccia e in barba al sussidio di disoccupazione (e al reddito minimo di sopravvivenza, aggiungiamo noi, ma ci torniamo dopo)

CDD o CDI, ovvero: quanto è precaria la Francia?

A Novembre del 2013 i risultati di un’indagine condotta dal ministero del lavoro francese hanno fatto scalpore: nel primo trimestre 2013 oltre l’80% dei contratti sottoscritti era a tempo determinato (CDD), e oltre il 60% di questi contratti aveva una durata non superiore al mese.

È partita subito una vera e propria guerra di cifre nella quale si è singolarmente distinta la multinazionale del lavoro interinale Manpower la quale, difendendo il suo, poneva l’accento sul fatto che oltre l’80% dei contratti globalmente attivi era a tempo indeterminato (CDI), e che in generale era giunta l’ora di uscire dalla logica “formale” della tutela del posto per passare alla logica “sostanziale” della tutela delle persone. Lasciando perdere le cazzate aziendali, resta il dato evidente del ricorso massiccio, nel settore privato, a contratti a tempo determinato, che in alcuni rami specifici, in Francia come in Italia, non è sottoposto né a vincoli causali né a limiti di rinnovo (parliamo di lavori stagionali come quelli nell’hotelleria, ristorazione, insegnamento, traslochi, per un totale del 12% del lavoro salariato in Francia).

Negli stessi mesi in cui quasi 9 neoassunti su 10 erano costretti a un CDD, la disoccupazione non smetteva di crescere: 3.600.000 circa i disoccupati, un po’ meno di 2 milioni i sottoccupati per un totale di poco più di 5 milioni; dei disoccupati, poco più della metà prende un sussidio di disoccupazione.

Se a questa cifra aggiungiamo quelli che a buon titolo possiamo considerare precari (part-time, stagisti, apprendisti, CDD di corta durata) arriviamo a circa il 30% della popolazione attiva disoccupata o precaria: niente male, per una delle economie più forti dell’Unione Europea!

RSA, ovvero: il reddito di cittadinanza in salsa francese

Il Reddito di Solidarietà Attiva, introdotto in questa forma nella prima metà degli anni 2000, ammonta oggi a poco meno di 500 euro al mese. Per averne diritto è “sufficiente” essere francesi, maggiori di 25 anni o anche minori di 25 se a carico della famiglia (si può essere anche cittadini UE o extra UE a vario titolo risiedenti in Francia, ma in quel caso bisogno aver accumulato un minimo di mesi di lavoro e quindi di contributi). In cambio il destinatario del sussidio deve impegnarsi a trovare lavoro o in alternativa un percorso di formazione professionale. Nel 2013 erano ben 2,3 milioni i destinatari del sussidio, che si eroga, cosa molto importante, anche a chi non raggiunge, pur lavorando, il salario minimo previsto dalla legge francese.

L’RSA si finanzia sulla fiscalità generale, ed in generale ha assorbito imposte che precedentemente finanziavano altri istituti di welfare (un po’ come ha fatto in Italia la Fornero con l’ASPI, o come propone Fumagalli nei suoi testi): al di là della platea destinataria, sicuramente molto più “selezionata” delle ambizioni dei sostenitori nostrani del “reddito di esistenza”, è interessante vederne gli effetti sul mercato del lavoro e sulle condizioni di vita dei lavoratori.

Il costo dell’affitto nella regione dell‘Ile de France, che da sola assorbe oltre un sesto della popolazione attiva (circa 5 milioni su 28 milioni totali), è di circa 30 euro; nelle altre grandi agglomerazioni urbane la media è di 15 euro, il che significa che per un monolocale di una ventina di metri quadri il canone oscilla tra i 300 e i 600 euro mensili: questo dato già da solo conta, e non poco, come criterio di valutazione dell’effettiva consistenza dell’RSA.

La possibilità di integrarlo con reddito da lavoro, per raggiungere il salario minimo (SMIC), ha portato ad una crescita ipertrofica dei contratti part-time, che altro non sono che full-time mascherati: il lavoratore accetta di buon grado un contratto di 20 ore dichiarate a fronte delle 35, almeno, effettive, dal momento che conserva l’RSA col quale andrà ad integrare il salario. Chi ci guadagna è il padrone, che paga meno contributi su un contratto di meno ore, dà meno ferie, meno buoni pasto etc etc. Il costo dell’RSA, come si è già detto, grava sulla fiscalità generale, quindi, se la matematica non è un’opinione e se è vero che un sistema di imposte realmente progressivo non esiste da nessuna parte, essenzialmente sulla classe lavoratrice.

In parole povere, sono i lavoratori stessi che, come in una cassa di solidarietà coatta, pagano una parte del salario a chi, col lavoro, non arriva al minimo, perchè il contesto normativo consente al padrone di pagare meno, attraverso il ricorso a finti part-time.

La ciliegina sulla torta consiste nella modalità di erogazione, che avviene attraverso la CAF, ente preposto all’erogazione di varie tipologie di allocations, tra cui quella per l’alloggio. La CAF, che già adesso, in particolare nei dipartimenti più poveri come Bouches du Rhone, cioè il distretto di Marsiglia, soddisfa meno della metà degli aventi diritto all’assistenza per lungaggini burocratiche dovute alla mancanza di personale (i dossier in coda al momento sono circa 20.000), ha ben pensato di riformarsi, consentendo la presentazione delle domande unicamente on-line (con buona pace di chi non ha gli strumenti informatici o le competenze tecniche o linguistiche per farlo). Insomma, l’RSA sì, ma neanche per tutti, bensì per i meno disagiati tra gli aventi diritto, presumibilmente francesi francofoni e con una certa dimestichezza informatica. Oltre che con una certa competenza burocratica e una buona dose di culo, perchè un errore nella presentazione di una qualsivoglia domanda apre la porta ad un incubo kafkiano dal quale non si esce più.

Che fare, allora?

Di fronte a questo quadro, qual è la posizione della sinistra antagonista francese? È forse una lotta per estendere l’RSA anche ai non francesi, magari stranieri residenti? Forse, ma non solo.

È forse una lotta per bloccare la riforma dell’allocation chomage? Certo, ma non solo.

È una lotta per un reddito minimo di esistenza, perchè con le nostre vite produciamo valore e quindi reclamiamo reddito, come risposta alla condizione immanente di precarietà nella relazione tra capitale e lavoro? No: la sinistra di movimento francese è in sofferenza come quella italiana, ma cazzate del genere non se ne sentono.

Si sente piuttosto una rivendicazione semplice, che nel suo essere semplice e vera sembra quasi naif: unità di lavoratori e disoccupati per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.

Altrove, e in altri tempi, si sarebbe detto: LAVORARE TUTTI, LAVORARE MENO!

Strani, questi francesi…

Questa voce è stata pubblicata in Europa, Francia, Lotta di classe, Riforme del lavoro. Contrassegna il permalink.