Faceva molto caldo il 12 Novembre, quando lavoratori, disoccupati, precari, studenti sono scesi in piazza a Napoli contro la visita del ministro Fornero, difendendo la strada e il corteo per oltre mezz’ora dalla pioggia di lacrimogeni e dalle cariche delle forze dell’ordine; faceva molto caldo il 14 novembre, quando mezza Europa è scesa in piazza per gridare che i lavoratori non ci stanno a pagare i costi della crisi in cui il capitalismo è ripiombato. L’autunno caldo non è più solo un’efficace immagine per indicare una stagione di lotte: il cambiamento climatico ha come risvolto positivo quello di poter fare cortei in maglietta a metà Novembre.
Se però questo caldo fuoristagione alla lunga stufa, il caldo delle lotte vorremmo durasse tutto l’anno, tutti gli anni. Per questo motivo proviamo a condividere alcuni spunti di riflessione, convinti che la forma e il contenuto che le lotte nel paese e in Europa stanno prendendo, da qualche anno a questa parte, siano dense di significato e piene di futuro.
Calendari a chiederci se stiamo prendendo abbastanza…
2 Novembre: Scontri al Polo logistico Ikea di Piacenza tra gli operai delle cooperative e le forze dell’ordine
6-7 Novembre, Grecia: 48 ore di sciopero generale, scontri e assedio al Parlamento
12 Novembre, Napoli: Il ministro del lavoro Elsa Fornero presenzia un vertice con l’omologa tedesca in stato d’assedio. Fuori c’è un corteo di oltre tremila persone, tenuto a distanza da un’imponente schieramento di polizia
12 Novembre, Chiomonte (TO): il ministro dell’interno Cancellieri disdice all’ultimo momento la visita, temendo contestazioni
13 Novembre, Carbonia: scontri tra operai Alcoa e Polizia in vista dell’arrivo dei ministri Passera e Barca; i ministri saranno costretti a scappare in elicottero
13 Novembre, Roma: un collettivo di precari e lavoratori sanziona le sedi Cisl e Uil
14 Novembre: Sciopero Generale Europeo. Adesioni altissime in Spagna e Portogallo – in serata scontri durissimi con le forze dell’ordine in moltissime città spagnole. In Italia manifestazioni in 87 città – scontri con le forze dell’ordine a Milano – Torino (occupazione della Provincia) – Padova – Parma e Roma. A Bologna sanzionata la sede della Cisl. A Napoli contestata la Cgil – sanzionata un’agenzia interinale, un edificio della Regione e bloccata la stazione centrale. Sciopero generale in Grecia (bassa percentuale di adesione). Manifestazioni in Francia e Belgio. Presidi di solidarietà in Germania – Austria – Regno Unito.
16 Novembre: Corteo studentesco a Palermo – scontri con le forze dell’ordine
In questa brevissima cronologia sono già racchiusi alcuni elementi che contraddistinguono le manifestazioni di piazza almeno da quattro anni a questa parte: una maggiore radicalità dei contenuti, una diffusa conflittualità, la scomparsa di ogni spazio di mediazione nella gestione della piazza, l’aumento degli episodi di scontri con le forze dell’ordine, che sempre più spesso però trovano come risposta non la fuga, ma una resistenza più o meno efficace.
Che cosa hanno in comune le lotte dei lavoratori degli ultimi anni – deboli, isolate, disgregate, di retroguardia – con le mobilitazioni degli studenti – enormi, ma di breve durata –, con i movimenti a difesa dei territori – Terzigno, Movimento No TAV, con gli indignados spagnoli, con i tre anni di scioperi generali in Grecia? Che filo lega queste ed altre manifestazioni di dissenso e opposizione alle loro rappresentazioni di piazza, pacifiche o meno? Il denominatore comune ci sembra essere il rifiuto, spesso inconsapevole, ma totale, del riformismo: una forma disperata di radicalità che nasce non tanto – di certo non sempre – come conseguenza di un ragionamento politico, ma piuttosto come constatazione empirica della chiusura di ogni spazio di negoziazione. Questo non significa già una maggiore consapevolezza politica del livello dello scontro, ma di certo evidenzia una sorta di sfiducia generale, al momento non ancora “costruttiva”: si lotta, in forme più o meno radicali, per rivendicazioni spesso limitate alla difesa del presente, senza ragionevoli speranze di successo nel presente; percepiamo il limite alle lotte costituito dall’impossibilità di ottenere “aggiustamenti” dalla controparte e dalla mancanza di un orizzonte generale, ma non siamo ancora in grado di ricostruire quell’orizzonte.
È la borghesia che ha chiuso gli spazi; è la lotta di classe dall’alto che ha determinato uno slittamento dal piano della pensabilità del riformismo e del contentino, al piano dell’attacco frontale, senza se e senza ma. La controparte, le classi oppresse, finora non hanno potuto fare altro che prenderne atto: la presa d’atto, però, è già carica di enorme valore politico.
Dal “Noi la crisi non la paghiamo!” al “Que se vayan todos”, il denominatore comune è la presa di coscienza crescente che, all’interno di questo sistema, la sola strada tracciata è quella dell’aumento dello sfruttamento, della fame, della miseria, e che l’unica possibilità risiede in un cambio radicale. Certo, la risposta populista è forte, la denuncia delle “ruberie” del personale politico oscura spesso le ragioni reali della crisi; altrettanto forte inizia ad essere la risposta reazionaria, fascista; ciò non toglie che, di fronte alla palese impossibilità di trovare via d’uscita “interne” al sistema, le suggestioni, le immaginazioni “altermondialiste” più varie, più eterogenee, più o meno realistiche o inconsistenti, trovano ampio spazio.
La borghesia ha dato un grosso contributo: chiunque oggi, in un moto inconsulto, pensi di poter trovare risposte nei limiti istituzionalmente sanciti, riceve letteralmente schiaffi e pugni in faccia. Non è un caso che le centrali del riformismo tra i lavoratori, i sindacati concertativi, debbano combattere con un calo inesorabile di iscritti e consenso; non è un caso che i partiti della sinistra paghino con un crollo di consensi ogni tentativo di riposizionamento alla loro destra; non è un caso che si marci inesorabilmente verso appuntamenti elettorali disertati dalla maggioranza degli aventi diritto e gestiti con leggi truffa.
La classe lavoratrice, spinta sempre più ai margini, non collabora più al mantenimento delle forme della democrazia: marginalizzata, si marginalizza a sua volta, e al momento non riesce a trarre, da questa espulsione, le ragioni per ricostruire la propria azione politica organizzata.
I don’t know what I want but I know how to get it
La frase solo apparentemente paradossale cantata da Johnny Rotten esprime bene, secondo noi, lo stato in cui ci troviamo: non sappiamo cosa vogliamo, al massimo sappiamo cosa non vogliamo – morire di lavoro, fame, miseria, schiavitù – ma sappiamo come ottenerlo. L’aumento della conflittualità di piazza è innegabile; il rifiuto pregiudiziale della violenza agita scompare di fronte alla violenza subita ogni volta che si manifesta il dissenso; il gas dei lacrimogeni, il sangue e i lividi dei manganelli, i sampietrini divelti sono le pietre tombali di ogni ipotesi di gestione “pacifica nei modi” del conflitto crescente. Non stiamo scrivendo l’elogio dei riot, né condanniamo a priori chi sceglie, o prova a scegliere, di evitare lo scontro in piazza: la forma ha significato se legata a una sostanza politica, altrimenti è fuffa; in questo senso i cassonetti dati alle fiamme e i palmi delle mani dipinti di bianco si equivalgono.
Quello che scriviamo è, secondo noi, complementare alle osservazioni precedenti: è evidente un aumento della violenza di piazza, e anche in questo caso c’è come “presa d’atto”, conseguenza della constatazione che “violenza” è veramente, e non per slogan, l’unica risposta che il capitale conosce e usa contro il dissenso. Le caramelle da distribuire come contentino sono finite: che in piazza ci sia chi implora un sussidio o chi vuole il comunismo, che ci siano le mamme anti-smog o collettivi e centri sociali la risposta è sempre una, il manganello.
Nessun giudizio di merito dunque, se non la solidarietà per chi lotta e chi subisce la repressione, sempre e comunque: l’unica cosa che vogliamo dire è che, oggi, non prendere atto a sinistra di questo slittamento anche sul piano del conflitto sociale, continuare a voler ridurre la violenza crescente a un problema di provocazione politica e di ordine pubblico (o, al contrario, esaltarsi per il gesto in sé, senza nessuna considerazione per cause, conseguenze e finalità), è una scelta perdente e senza senso.
L’astensionismo trionfa a Fucecchio
La maggioranza dei cittadini non vota o non voterà più; chi lotta, protesta, scende in piazza, difficilmente pensa che la difesa del proprio posto di lavoro e dei propri diritti passi per un partito o per un sindacato; il dissenso trova forme sempre più radicali: abbiamo vinto? Possiamo esultare, come faceva il PMLI quando riferiva, come nel nostro titoletto, che in un paese della Toscana era saltato il giocattolo elettorale? Non esattamente.
Gli ultimi anni di lotte ci dicono, crediamo, le cose che abbiamo finora scritto, ma ci dicono anche altro: ci parlano di tre anni di scioperi generali in Grecia che non sono riusciti a far uscire quel paese dal baratro, e che vedono via via scemare il numero delle adesioni; ci riportano alla memoria immagini di oceaniche manifestazioni studentesche svanite nel giro di due mesi, senza mettere a segno alcun punto, o quasi; ci parlano di lotte di lavoratori per la difesa del posto di lavoro isolate, disperate, con poche possibilità realistiche di riuscita.
Le mobilitazioni possono proseguire, intensificarsi, radicalizzarsi ancora, e siamo certi che accadrà esattamente questo: ma questo livello, da solo, non porta a nulla, neanche, come poteva accadere fino a dieci, venti anni fa, ad un rafforzamento delle strutture politiche in grado di capitalizzare l’energia sprigionata dalle lotte, perché le strutture capaci di ricevere e incanalare questa ‘eccedenza’, come altri compagni l’hanno definita, non ci sono.
L’elemento centrale, quindi, quello sul quale riteniamo che tutt* si debbano porre, almeno sul piano del ragionamento, è ancora, di nuovo, prepotentemente, quello dell’organizzazione, o meglio, dell’investimento di energie, risorse e lavoro politico nella costruzione dell’organizzazione. Non è un caso, infatti, che da più parti all’interno del movimento si solleciti una riflessione su questo piano: solo negli ultimi venti giorni l’invito a muoversi in tal senso è venuto dagli interventi dei compagni della Rete dei Comunisti (Casadio, Cararo), dalle riflessioni pubblicate su Contropiano di Bausano e Quadrelli, dagli interventi post-14 Novembre di Wu Ming 1 su Giap! e del Collettivo Militant sul proprio sito; e sicuramente dimentichiamo qualcuno.
Gli elementi dai quali partire sembrano essenzialmente due: un bisogno crescente ed esplicito di dotarsi di un’organizzazione politica della classe (chiamiamolo partito perché è il nome corretto ed è più rapido); l’insoddisfazione di questo bisogno all’interno delle strutture esistenti, siano esse collettivi di movimento o partiti comunisti già presenti, variamente denominati. Non è un giudizio di valore, il nostro, ma una constatazione: abbiamo il massimo rispetto per chiunque oggi spenda energie nella costruzione di un partito della classe, ma riteniamo evidente che tutti questi tentativi siano strutturalmente inadeguati, perché mancano le precondizioni per la costruzione del partito. È sulle precondizioni, quindi, che riteniamo si debba lavorare, ed è su quelle che proviamo, nel nostro piccolo, ad intervenire, consapevoli, ancora, che l’organizzazione uscirà soltanto da un processo sociale e politico collettivo.
Da che cosa incominciare?
Non abbiamo la bacchetta magica, e la storia, in particolare degli ultimi venti anni, ci ha reso tutti oggettivamente inadeguati, come quadri, ai compiti che ci toccano. Dobbiamo prendere ripetizioni. Abbiamo solo alcune idee dalle quali pensiamo si possa partire: lo studio e l’inchiesta come attività politica, per ridotarci degli strumenti di analisi e conoscenza della realtà propri dei comunisti, che anni di revisionismi, negazioni e post-ismi vari hanno gettato nel dimenticatoio; la costruzione di un programma minimo di classe in una fase non rivoluzionaria, per immaginare e declinare nell’azione parole d’ordine, vertenze, iniziative che portino all’accumulo e non alla dispersione di risorse ed energie, e che siano in grado di spostare effettivamente, anche se di poco, l’asticella dei rapporti di forza tra le classi a nostro vantaggio; la ripresa e la coltivazione della discussione e del dibattito politico tra compagni, basato sulle posizioni e sul merito e non sulle appartenenze e le chiusure settarie; l’assunzione di un atteggiamento coerentemente internazionalista, volto a ricostruire realmente le relazioni tra comunisti a livello internazionale, e nel nostro caso in particolare a livello europeo, lo stesso assunto dalla borghesia per ristrutturarsi nell’attacco al proletariato; l’investimento prioritario nella costruzione di ogni spazio che abbia carattere riaggregativo e ricompositivo e che possa costituire un punto di riferimento, per quanto embrionale, per la classe.
Crediamo che il partito “giusto”, efficace strumento di riorganizzazione politica dei lavoratori, banalmente non possa nascere oggi, mancando, oggi, le condizioni; siamo però altrettanto convinti del fatto che oggi, ora, subito, tutti coloro che condividono questa esigenza debbano orientare il proprio lavoro in questa direzione, assumendo tutti i comportamenti utili a costruire la strada che porta all’organizzazione. Le cose che abbiamo elencato ci sembrano alcune “buone pratiche” che possono orientano un lavoro politico su un piano utile ed efficace. Su questo riteniamo ci si debba confrontare: la crisi porta strappi e accelerazioni che ci costringono a prenderci rapidamente responsabilità che non avremmo pensato di prendere prima. La riflessione e il dibattito non possono, ovviamente, attestarsi a questo livello, ancora troppo misero: proviamo almeno, con questo intervento e con altri, a dare un contributo.