Senza padrone è meglio! Report dal primo incontro euromediterraneo delle fabbriche sotto controllo operaio

[il 31 Gennaio e il 01 Febbraio 2014 si è tenuto, nella fabbrica occupata Fralib di Gémenos, Francia, il primo incontro euromediterraneo delle e sulle fabbriche sotto controllo operaio, che si inserisce nel filone degli incontri internazionali su “l’economia dei lavoratori”, iniziati nel 2007 in Argentina su impulso della Faculdad Abierta di Buenos Aires e di altri attivisti, ricercatori, operai, militanti sociali e politici. Abbiamo partecipato, di seguito il nostro report]

La Fralib è ferma al 2010. I pallet carichi di scatole, etichette e sacchetti per il tè Lipton o le tisane Elephant occupano il corridoio centrale della struttura: nonostante i tre anni di chiusura forzata (attualmente gli operai in occupazione fanno una piccola produzione esclusivamente “militante” per finanziare la lotta) non c’è traccia di polvere né sui pacchi, né a terra, né sui macchinari. Tutto è tenuto in perfetto stato, pronto a ripartire. E’ in mezzo alle due linee di macchinari che inizia la densissima giornata di incontro tra realtà lavorative, militanti sociali e politici, ricercatori accademici: non meno di cento persone sono presenti in sala, ci sono gli operai e le operaie Fralib, un delegato della Vio.Me di Salonicco, un rappresentante della Textiles Pigué argentina, ricercatori dall’Argentina, dal Messico e dal Brasile, i compagni e le compagne della Ri.Maflow di Milano e delle Officine Zero di Roma, un lavoratore della Fabrique du Sud di Carcassonne, decine e decine di militanti politici da tutta Europa.

Alle 10 e 30 Andres Ruggeri di Faculdad Abierta e Dario Azzellini di workerscontrol.net danno il via ai lavori, che dureranno, con poche soste, fino a oltre le 19 del pomeriggio: moltissime ore, ma del resto è impossibile pensare di ridurre il tempo. E’ impossibile anche pensare, in un report, di raccontare tutto dettagliatamente: quello che scriviamo è la sintesi degli elementi che ci sono sembrati più significativi.

L’idea di organizzare incontri periodici tra e con operai di fabbriche occupate e autogestite nasce in Argentina: dal 2001 ad oggi, sono circa 310 le fabbriche sotto controllo operaio, con un ritmo che è stato impetuoso fino al 2007 per poi rallentare, senza per questo mostrare segni di cedimento. L’esigenza di andare oltre il Sudamerica ha portato all’organizzazione di questo incontro, al quale seguiranno altri due incontri regionali, in Argentina e in Messico, fino al prossimo incontro internazionale previsto in Venezuela nel 2015. L’obiettivo è, essenzialmente, lo scambio di informazioni e di esperienze, unito alla costruzione di relazioni dirette tra lavoratori delle fabbriche in lotta.

Il punto di partenza è fin troppo semplice: senza padrone è meglio!

L’esigenza di conservare il posto di lavoro, in contesti di dismissione da parte del capitale, è il motore che porta, dopo l’occupazione, all’autogestione: la dinamica gestionale è quella cooperativa, anche se, particolarmente in America del Sud, i compagni e le compagne sentono l’esigenza di rompere col modello cooperativo novecentesco, che fin troppo spesso è stato la maschera di rapporti di sfruttamento, e di insistere sulla pratica dell’autogestione e della democrazia diretta in fabbrica.

L’occupazione e l’autogestione non vengono dal nulla: Dario Azzellini ci ricorda come, ai quattro angoli del pianeta, ogni volta che c’è stata una rivoluzione socialista, nazionale, una lotta di liberazione anticoloniale o semplicemente una crisi del modo di produzione ci sono state esperienze di controllo operaio. Il problema, ricorda sempre Azzellini, è che il capitalismo ha dimostrato di essere in grado di assorbire qualunque novità venga dal basso: una lotta, dunque, o vince sul piano politico o ha come risultato quello di modernizzare il sistema e migliorarlo dal punto di vista del profitto.

Ciononostante, tutte le esperienze di controllo operaio sono da valorizzare, da promuovere e da mettere in rete, a prescindere dalla contraddizioni nelle quali restano immerse, in particolare per la necessità di continuare a rapportarsi al mercato capitalista.

I dati forniti dai ricercatori parlano chiaro: un numero crescente di lavoratori in America del Sud lavora in fabbriche autogestite, dove si registra un generale miglioramento delle condizioni di lavoro, una netta diminuzione degli incidenti, un generale miglioramento del livello salariale e una riduzione più o meno accentuata del divario tra il salario più grande e quello più piccolo. L’obiettivo successivo di tutte le realtà autogestite è quello di ridurre al minimo i passaggi per gli intermediari tanto per le merci in entrata quanto per quelle in uscita, nonchè quello di integrarsi più approfonditamente col territorio per costruire reti di sostegno alle fabbriche, sensibilizzare il consumo, aprire la fabbrica al contesto urbano: non sono pochi i casi in Sud America di fabbriche autogestite al cui interno sono state costruite mense popolari, scuole e altre attività per il contesto sociale esterno.

Un’ulteriore esigenza è quella di non trascurare l’ammodernamento tecnologico e l’efficienza produttiva: non sono pochi, purtroppo, i casi di imprese private che, anche in contesti di forte cambiamento come in Venezuela, con una lunga serie di espropri e nazionalizzazioni, continuano a fatturare molto di più delle imprese “pubblicizzate”, cosa che, finchè si resta in ambito capitalistico, condanna presto o tardi l’esperienza autogestita al fallimento.

Ad ogni modo, il carattere sistemico e non congiunturale della crisi, così come impone al capitale la necessità di rinnovarsi, pena il collasso, ugualmente spinge la classe ad una maggiore determinazione: le possibilità di vincere, percorrendo il cammino della lotta e dell’organizzazione, sono più alte, così come quelle di morire di fame, sfruttamento, miseria e guerra se ci si rassegna allo stato di cose presente.

E in Europa?

Con l’esplosione della crisi tra il 2007 e il 2008 anche in Europa si sono viste sempre più frequentemente esperienze di occupazione e di autogestione: la Vio.Me di Salonicco è stata uno dei primi casi, nata proprio dalla volontà operaia di non cedere alla rassegnazione, di non aspettare di fare la conta dei suicidi tra i colleghi, ma di autorganizzarsi e lottare per diventare padroni del proprio destino.

Interessante l’intervento di un compagno dell’associazione serba Pokret, che ha ricordato come l’autogestione fosse il presupposto del governo delle fabbriche nella Jugoslavia e ha sottolineato che loro lo smantellamento l’hanno subito negli anni ’90, ad opera del FMI con la complicità dell’UE, e che il paese è stato totalmente devastato nella sua struttura industriale da un’ondata di privatizzazioni e licenziamenti senza limiti. Ciononostante anche lì, oggi, si ritorna, con la lotta, ad esperienze di autogestione.

Le situazioni in Europa sono spesso ancora allo stato embrionale: i casi italiani, ad esempio, vedono due imprese chiuse – di cui una, quella delle officine di riparazione dei vagoni letto di Trenitalia, legata a doppio filo a commesse pubbliche venute meno – all’interno delle quali gruppi, a dir la verità non troppo numerosi, di ex dipendenti, insieme a militanti politici e sociali, hanno appena iniziato a immaginare una possibile ripresa del lavoro all’interno delle strutture dismesse, spesso cambiando progetto imprenditoriale.

Diversa è la situazione della Fralib, fabbrica di té e tisane a marchio francese acquistata all’inizio degli anni ’90 da Unilever (proprietaria del marchio Lipton) che, dopo aver goduto di una serie di contributi statali, ha ben pensato di chiudere e trasferire la produzione in Polonia, sperando prima o poi di spostare anche i macchinari…

Ma non aveva fatto i conti con la determinazione degli operai e con la loro lucidità politica: dopo tre anni di lotta, con quattro sentenze dei giudici del lavoro che hanno condannato l’Unilever e recentemente imposto la riassunzione di tutti i 140 operai (determinazione che la multinazionale si guarda bene dal rispettare), i dipendenti non hanno alcuna intenzione di lasciar correre. La Regione Provence-Alpes-Cote Azur ha acquistato il sito industriale e i macchinari, teoricamente loro potrebbero ripartire con un altro marchio, magari godendo di un po’ di finanziamenti pubblici, ma non se ne parla: vogliono che l’Unilever restituisca quello che ha rubato fino all’ultimo centesimo e rivogliono indietro il marchio Elephant, l’unico che può garantirgli volumi produttivi tali da mettere a pieno regime i macchinari.

Le operaie e gli operai hanno difeso i macchinari non solo per il loro futuro, ma anche perchè consapevoli di che cosa avrebbe comportato il loro trasferimento in Polonia: il licenziamento dei due terzi dei 400 operai polacchi che attualmente fanno gran parte del lavoro a mano, perchè la Unilever non ha intenzione di investire in nuovi macchinari lì e ha il suo profitto nell’ipersfruttamento della manodopera locale, pagata con salari da fame.

Sono, inoltre, perfettamente coscienti dell’importanza politica della loro battaglia, e per dimostrarla fanno i conti in tasca alla multinazionale: cedere macchinari e marchio gli sarebbe costato due milioni e mezzo di euro, nulla in confronto ai 60 milioni che hanno speso finora nelle battaglie legali per impedire ai lavoratori di vincere.

“Non si tratta più di convenienza economica”, dice uno degli operai, “ma di lotta di classe contro i lavoratori: e di fronte a questo obiettivo politico, i padroni hanno budget illimitato.”

Conclusioni?

Nessuna. L’obiettivo principale di questi incontri sono gli incontri stessi. Ieri, in un piccolo paese francese, all’interno di una fabbrica occupata, lavoratori italiani, spagnoli, francesi, brasiliani, portoghesi, argentini, greci, messicani parlavano tra di loro, si capivano nonostante le differenze linguistiche (ma anche grazie alle doppie e a volte triple traduzioni di encomiabili volontari), si riconoscevano gli uni nelle facce degli altri (“Vi ho chiamato colleghi, ma colleghi in greco ha la stessa radice della parola fratelli, perchè per noi voi siete più che fratelli”, dice l’operaio della Vio.Me), scambiavano esperienze, socializzavano successi e difficoltà, mettevano in rete obiettivi e prospettive, tutti consapevoli, al netto delle differenze, che non c’è trasformazione dell’esistente senza rivoluzione.

L’autogestione è una strada per la rivoluzione? Forse. Nessuno vuole dare una risposta certa a questa domanda, ma tutti sono d’accordo su un punto: senza padrone è meglio!

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